
16 Gen A.I. e il futuro del lavoro
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A.I. e il futuro del lavoro
La protagonista indiscussa del 2024 è stata l’intelligenza artificiale e il suo utilizzo facilmente accessibile al pubblico.
Dal punto di vista sociale, siamo di fronte a quello che si può definire un “Great Divide”, un evento che provoca un radicale cambiamento nella società e che innesca una serie di eventi difficilmente prevedibili. Nella storia esempi di Great Divide sono stati: l’invenzione della scrittura, della stampa, delle macchine a vapore, dell’elettricità, del computer e di internet.
Ad ognuno di questi grandi cambiamenti si è sempre associata una paura di perdere qualcosa. In particolare, gli ultimi cambiamenti sono stati associati alla paura di perdere posti di lavoro e l’arrivo dell’Intelligenza Artificiale “di massa” non ha fatto eccezione.
Dalla rivoluzione industriale in poi la paura che l’essere umano fosse soppiantato dalla tecnologia è stata una costante. Il movimento “Luddista” già nel XIX secolo puntava a distruggere fisicamente le macchine, colpevoli di sottrarre il lavoro agli operai. In anni più recenti l’economista, sociologo e attivista Jeremy Rifkin pubblicava un celebre libro dal titolo “La fine del lavoro” (1995), in cui si profetizzava il trionfo definitivo della macchina sull’uomo.
Su questa stessa linea, alcune recenti pubblicazioni hanno previsto la scomparsa di milioni di posti di lavoro nei prossimi anni. Benedikt Frey e Michael Osborne, dell’Università Oxford, nel 2013 hanno pubblicato un rapporto nel quale si calcolava che il 47% dei lavoratori americani rischiassero di essere sostituiti dalle macchine. Nel 2017 lo studio “A future that works: automation, employment and productivity”, del McKinsey Global Institute, dichiarava che entro il 2030 l’automazione dovrebbe eliminare fino a 800 milioni di posti di lavoro a livello globale a fronte della creazione di 555 milioni.
Insomma, non esattamente uno scenario positivo. Ma che cosa ci insegna la storia dal punto di vista del rapporto tra occupazione e tecnologie?
Partiamo da un fatto: i paesi con la disoccupazione più bassa sono paesi tecnologicamente avanzati. Nelle prime dieci posizioni tra i paesi a più alta occupazione troviamo:
Questa è una tendenza sempre verificata nella storia a partire dalla rivoluzione industriale. Le evoluzioni tecnologiche hanno distrutto posti di lavoro, ma ne hanno anche creati in numero tale da ottenere un saldo positivo. Perché nel caso dell’introduzione dell’AI dovrebbe essere diverso?
In realtà è molto difficile prevedere quali professioni saranno create in futuro, di conseguenza è praticamente impossibile stimarne l’impatto occupazionale. Quello che è certo è che queste professioni richiederanno un grado di alfabetizzazione digitale elevato e, di conseguenza, una capacità di apprendere nuove competenze legate alle nuove tecnologie.
Purtroppo, la differenza rispetto al passato è in questo aspetto. Ci sono due problemi che potrebbero mettere in crisi l’occupazione del futuro: le tempistiche e la capacità di apprendere.
Il problema delle tempistiche è un problema globale. I “Great Divide” hanno aumentato drammaticamente la loro frequenza nell’ultimo secolo. Siamo passati da invenzioni rivoluzionarie che accadevano a distanza di secoli, a distanza di decenni e ora siamo arrivati a distanze di pochi anni. La rivoluzione informatica è partita meno di cinquanta anni fa, la rivoluzione di internet non più di una trentina e oggi siamo già di fronte ad una nuova rivoluzione: quella dell’intelligenza artificiale. Di questo passo entro una quindicina di anni al massimo potrebbe verificarsi una nuova rivoluzione. Abbiamo il tempo di adeguare le nostre competenze?
Per il secondo problema, la capacità di apprendere, mi riferisco alla realtà italiana. Secondo una ricerca OCSE, il 35% degli adulti sono “analfabeti funzionali” (contro una media OCSE del 26%), persone che non sono in grado di comprendere il significato di un testo o informazioni numeriche. Inoltre, quasi la metà ha grosse difficoltà nel “problem solving”.
Partendo da questi dati, non si può essere molto ottimisti sulla capacità di adeguamento della nostra popolazione ai futuri cambiamenti e alla rapidità con cui si susseguiranno.
La storia ci insegna che l’Italia ha sempre peccato di visione di lungo termine e di pensiero strategico, ma ci ha anche insegnato che nei momenti di crisi, quando si tocca il fondo, riesce a liberare risorse inaspettate che la tengono comunque a galla.
L’intelligenza artificiale sta accelerando drammaticamente l’avvicinarsi di quel “fondo”. È cruciale rendercene conto subito e agire di conseguenza con programmi di modernizzazione e investimenti in tecnologia e cultura tecnologica, altrimenti perderemo il treno del futuro.
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